La tematica dei falsi miti nel calcio, trattata nelle scorse settimane, ha riscontrato un buon interesse e quindi abbiamo deciso di raccontarne e sfatarne di altri (sono tanti, purtroppo).

Ricordiamo la definizione che gli possiamo attribuire:<< errate concezioni sull’allenamento e sugli altri aspetti a esso correlati (alimentazione, recupero, fattori psicologici, ecc.), frutto di retaggi culturali, ormai smentiti da anni dalle evidenze scientifiche internazionali>>.

Come dicevo, purtroppo sono ancora tanti i falsi miti che nel “magico” mondo della preparazione fisica (in particolare nel calcio) sono diffusi e continuano a diffondersi, nonostante le fondamenta scientifiche sono davvero scarse.

Prendiamone in esame altri tre:

  • L’attività sessuale prima della partita peggiora la prestazione del calciatore in gara.

E’ stato dimostrato da diversi studi scientifici raccolti nell’articolo Sexual Activity before Sports Competition: A Systematic Review, pubblicata su Frontiers in Physiology da L. Stefani e collaboratori, che nonostante l’argomento non è del tutto chiaro, le ricerche scientifiche attuali dimostrano che l’attività sessuale, svolta non meno di due ore prima della competizione, non ha impatto sulla capacità aerobica e di esprimere forza da parte dell’atleta.    

Ovviamente, gli autori sottolineano come i comportamenti sbagliati soventemente associati alla pratica sessuale come alcool e droga siano fattori che sicuramente determinano un decadimento della performance.

Quindi, in attesa di ulteriori studi, possiamo affermare che questa credenza è sbagliata, nella sua accezione assolutistica.

Figura 1: Studi inclusi nello studio di L. Stefani et al. “Sexual Activity

before Sports Competition: A Systematic Review”.

  • Ci sono troppi infortuni, la colpa è del preparatore atletico!

Questa è una delle classiche affermazioni che si leggono nei social network e gli altri mass media, ma purtroppo anche gli addetti ai lavori si fanno condizionare o hanno questa errata convinzione.

Innanzitutto, è scontato dire che occorre fare una prima distinzione tra traumi da contatto e da non contatto, in funzione del meccanismo lesionale scatenante. Per i primi, strategie preventive particolari, in linea di massima, non possono esistere (se non la correttezza nel gioco, la gestione arbitrale della gara, il fair play, la gestione ottimale della superficie di gioco e il giusto equipaggiamento). Poi, occorre sempre valutare la sede anatomica dell’infortunio, la severità della lesione e le circostanze d’accadimento (allenamento, partita, momenti specifici dell’allenamento o partita).

Inoltre, i fattori di rischio (intrinseci ed estrinseci) che predispongono agli infortuni, soprattutto di natura muscolare, sono molteplici, infatti l’eziologia delle football injuries è multifattoriale e la valutazione dei fattori di rischio richiede un approccio multivariato (Inklaar, 1994; Meeuwisse, 1994) e quindi un approccio di tipo univariato, che non tenga conto della molteplicità dei fattori presenti e della loro possibile interazione, non è in grado di fornire un quadro abbastanza adeguato del problema e può generare interpretazioni erronee e incomplete (GN Bisciotti, 2016).

Figura 2:  Modello di analisi multifattoriale delle lesioni sportive (GN Bisciotti, 2016).

Nello specifico i principali fattori di rischio secondo Gian Nicola Bisciotti nel suo libro “La prevenzione degli infortuni nel calcio” (2016), rifacendosi a quanto evidenziato in letteratura scientifica da diversi autori, sono:

  • Fattori di rischio intrinseci:
  • Età;
  • Dati antropometrici;
  • Genere;
  • Lesioni pregresse;
  • Programmi riabilitativi inadeguati;
  • Effetto fatica;
  • Livello di condizione fisica;
  • Effetto di dominanza di un arto;
  • Malallineamento degli arti inferiori;
  • Forza muscolare;
  • Squilibrio muscolare;
  • DOMS;
  • Flessibilità;
  • Instabilità articolare;
  • Capacità d’equilibrio;
  • Livello di gioco di squadra e livello tecnico individuale;
  • Fattori psicologici.
  • Fattori di rischio estrinseci:
  • Errori nella programmazione dei carichi d’allenamento e warm-up;
  • Eccessiva frequenza degli impegni agonistici;
  • Inadeguato rapporto tra le ore di allenamento e competizione;
  • Esecuzione non corretta dello stretching;
  • Superfici di gioco;
  • Periodo della stagione;
  • Timing dell’allenamento o gara;
  • Il ruolo del giocatore;
  • L’equipaggiamento;
  • Falli di gioco.

Infine, occorre tenere presente le risorse economiche investite dalla società nelle strumentazioni utili all’attuazione di adeguate strategie preventive e riabilitative e la qualità comunicativa tra lo staff sanitario, atletico e tecnico, nonché dalla compliance del calciatore con le strategie previste dallo staff per la prevenzione (parlerei di prevenzione per il singolo e riduzione per la squadra nell’annata agonistica).

Considerando tutte queste variabili, sembra scontato che sia impossibile addossare la colpa al preparatore atletico, al medico, al fisioterapista o a qualunque altra figura professionale, se non spinti da fenomeni di de-responsabilizzazione tipici di quello che in spagnolo si dice echar el muerto al otro (dallo spagnolo, passare il morto all’altro), che deriva da una pratica medievale, secondo la quale, nei feudi in cui fosse trovata una persona morta per cause non naturali, agli abitanti del feudo era imposto di pagare una tassa al signore del feudo per aver “ucciso” uno dei suoi lavoratori. Come potete immaginare, quando si trovava un individuo morto, rapidamente ci si metteva d’accordo, lo si caricava su un mulo o su di un carro per trasportarlo nel feudo più vicino; e così ci si vedeva esonerati dal pagamento del contributo (Jennifer Delgado Suàrez).

  • Trasformazione…

Purtroppo, a qualunque livello competitivo, sentiamo spesso calciatori, allenatori o altre figure professionali che parlano di trasformazione della forza, come un bisogno quasi compulsivo di dover “trasformare” un esercizio di forza attraverso lo skip, i tiri in porta, i colpi di testa, ecc.

Già come logica è impensabile e fantasioso pensare che dopo aver svolto sei ripetizioni di squat, facendo lo skip trasformo la forza prodotta allo squat in velocità oppure nella potenza del calcio in porta; ma per essere rigorosi e scrupolosi apriamo il dizionario Treccani e vediamo la definizione di trasformazione:<<l’atto, l’azione o l’operazione di trasformare, il fatto di trasformarsi o di venire trasformato, che comporta un cambiamento, per lo più profondo e definitivo, di forma, aspetto, strutture o di altre caratteristiche strutturali>>.

Dalla definizione esposta ritroviamo qualcosa di aderente all’idea di trasformazione che si ha nel calcio? E’ una cosa fattibile con un semplice skip dopo la forza?

La risposta è scontata, ma argomentiamo la tematica attraverso le solite e preziose evidenze scientifiche, analizzando nello specifico quanto dovrebbe significare il termine trasformazione nella metodologia dell’allenamento, cioè transfert, prendendo come riferimento a quanto scritto in seguito due studi, il primo una brief review pubblicata nel 2006 su International journal of sports physiology and performance da Warren B. Young “Transfer of Strength and Power Training to Sports Performance” , e il secondo review del 2013 pubblicata su Sports Medicine da Vladimir B. Issurin “Training Transfer: Scientific Background and Insights for Practical Application” .

I pionieri del transfert sono stati Thorndike e Woodworth, che proposero il concetto di miglioramento di un’abilità, un lavoro o un compito target, effettuando lavori simili. In seguito si parlò di transfert da compiti vicini o lontani, in base alla vicinanza o meno delle caratteristiche con il compito target e di transfert verticale, per l’acquisizione di abilità più complesse, e di transfert  laterale per raggiungere un più alto livello di competenza nel compito target.

In seguito su questo concetto si sono iniziate a interessare le Scienze dello Sport, implementandolo nelle metodologie dell’allenamento, ma non nell’accezione che purtroppo oggi nel calcio (e non solo) si crede.

Generalmente, di transfert si parla nell’allenamento della forza e/o potenza contro resistenza (es. con i classici sovraccarichi in palestra), analizzando il grado di miglioramento della performance sportiva specifica in seguito ad un programma di allenamento in tal senso. Ad esempio, si può valutare dopo un programma di varie settimane di Squat i miglioramenti nel salto verticale, nello sprint, in determinati gesti tecnici e nelle altri variabili di performance correlati allo sport-specifico, nel nostro caso il calcio.

Ogni esercizio può avere un grado di transfert diverso su ogni parametro della performance e in base a questo si può valutare se svolgerlo o meno. Ad esempio, lo squat ha un transfert maggiore nella componente di forza verticale (salto) mentre l’allenamento con la slitta nella componente orizzontale (sprint). Questo ovviamente non significa il dover svolgere solo ed esclusivamente lavoro specifici o eliminare quelli di forza combinati con la palla, ma occorre fare scelte programmatiche in funzione dello scopo e dell’obiettivo dell’allenamento a breve, medio e lungo termine. Ad esempio, utilizzare esercitazioni di forza con il tiro può essere utile quando occorre ottimizzare i tempi, allenando contemporaneamente la componente fisica e tecnico-tattica, oppure per variare le esercitazioni e renderle più stimolanti.

Quindi, il transfert  non si ottiene facendo skip o tiri in porta dopo lo squat, ma valutando le giuste esercitazioni propedeutiche al miglioramento della prestazione, e specifiche per quanto riguarda pattern di movimento e velocità di contrazione.

Inoltre, occorre ricordare che l’allenamento generale della forza, per quanto con basso transfert e poco specifico, può essere utile per altri aspetti fondamentali come la prevenzione degli infortuni, l’incremento della massa muscolare e la capacità di esprimere forza da parte del muscolo.

Figura 3: Il resisted sled training (RST) è uno dei metodi per il miglioramento della forza orizzontale che determina un alto grado di transfert sulla capacità di sprint.

Nella terza parte su i falsi miti nella preparazione fisica del calciatore, né abbiamo sfatati altri tre, provando a fare chiarezza e alimentare critiche costruttive e migliorative.

 

I falsi miti sono tanti, quindi come direbbe Califano:<<non escludo il ritorno…>>.

“Ci saranno sempre degli esquimesi pronti a dettare le norme su come devono comportarsi gli abitanti del Congo durante la calura.”

(Stanisław Jerzy Lec)

Prof. Pasquale D’Antonio

Dottore Magistrale in Scienze e Tecniche dello Sport

Dottore in Scienze Motorie

Master di I livello in Teoria e tecniche della Preparazione Atletica nel Calcio 

Preparatore Atletico Professionista FIGC abilitato

Preparatore Atletico di settore giovanile FIGC abilitato

Certified Strength and Conditioning Specialist (CSCS NSCA certified)

Istruttore di Atletica Leggera FIDAL abilitato

Esperto di Preparazione Fisica per le attività di alto livello CONI  

Preparatore atletico con esperienza nei professionisti (settore giovanile e prima squadra)

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